Il reato di “atti persecutori” o, comunemente, di stalking, previsto e punito dall’art. 612 bis c. p., è stato introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento con il d. l. n. 11/2009, convertito nella legge n. 38/2009, che lo ha inserito nel Titolo XII del codice penale tra i reati contro la persona.
Al testo originario furono apportate modifiche nel 2013 e successivamente dalla legge n. 69 del 19 luglio 2019, Codice Rosso, la quale è intervenuta specificatamente sul trattamento sanzionatorio ed in generale sulla concessione della sospensione condizionale della pena e sulla procedibilità.
Il reato consiste nel fatto di chi con condotte reiterate minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
Il reato, dunque, può essere integrato in tre diverse situazioni, accomunate da un comportamento iniziale che deve essere di minaccia o molestia reiterata tali da cagionare una delle predette ipotesi.
La reiterazione delle minacce o delle molestie non coincide con un dato puramente quantitativo, pertanto, secondo quanto ritenuto anche dalla giurisprudenza il reato potrà essere integrato anche in presenza di minacce o molestie numericamente limitate purché costituenti atti autonomi, ma abituali, determinanti nella vittima del reato in alternativa o congiuntamente: a) uno stato di ansia o di paura; b) il fondato timore di un pericolo per la propria incolumità o di un prossimo congiunto; c) l’alterazione delle proprie abitudini di vita.
In più occasioni è stato precisato che il danno conseguenza delle minacce o molestie non deve avere carattere biologico, essendo sufficiente una alterazione del normale equilibrio psico-fisico.
L’evento, dunque, non dovrà essere provato dal punto di vista medico legale, ma dovrà dedursi da elementi sintomatici del turbamento psicologico della vittima in base alle sue dichiarazioni o a quelle di eventuali testimoni ovvero ai comportamenti successivi della persona offesa. Ciò tenuto conto anche della astratta idoneità delle molestie e delle minacce perpetrate a realizzare l’evento richiesto per l’integrazione del reato de quo.
A titolo di esempio, può integrare il reato in esame il comportamento di chi in maniera continuativa e molesta si fa trovare sotto casa di un ex fidanzato/a con la volontà di tentare un non gradito rappacificamento ovvero il fatto di chi per conquistare l’affetto di una persona invia reiteratamente messaggi manifestando le proprie intenzioni, allorché tali condotte abbiano determinato una o più delle conseguenze sopra indicate.
Il reato sarà integrato, secondo l’opinione prevalente della giurisprudenza, anche se il perdurante stato di ansia e di paura non è determinato nel diretto destinatario della condotta, ma indirettamente nei confronti di terzi, ad esempio, i figli.
L’autore del reato su segnalazione della persona offesa che non abbia ancora presentato querela potrà essere raggiunto da “ammonimento” da parte del Questore. In tal caso, qualora venga in seguito depositata denuncia, la perseguibilità sarà comunque d’ufficio, con conseguente impossibilità di remissione. Analogamente se la persona offesa è minore o disabile. Negli altri casi, invece, la procedibilità sarà a querela di parte, ma la remissione, al fine di evitare pressioni sulla persona offesa, potrà essere solo ed esclusivamente processuale ed in ogni caso non potrà essere revocata se il fatto è stato commesso con minacce gravi e reiterate.
Il termine per il deposito della querela è di sei mesi.
La pena per il reato de quo potrà essere determinata dal Giudice da un minimo di un anno ad un massimo di sei anni e sei mesi. Sarà aumentata se il fatto è commesso nei riguardi del coniuge, anche separato o divorziato o di persona legata da una relazione affettiva all’autore. L’aumento potrà essere fino alla metà se la vittima è minore o disabile.