Un annoso problema che si pone con riferimento ai reati commessi nell’ambito societario ovvero ai reati fallimentari è quello della responsabilità penale del soggetto o dei soggetti che pur non rivestendo la qualifica formale di amministratori della società, in realtà possano esserne considerati gli amministratori di fatto, contestualmente a quello di diritto.
La recente modifica del codice civile sul tema societario ha, in parte, semplificato la questione.
L’art. 2396 c.c., così come recentemente modificato, equipara, infatti, all’amministratore di diritto, cioè a colui che formalmente riveste la qualifica, chi, pur non essendo formalmente investito della funzione, esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione.
Il precedente articolo 2380 bis c.c. definisce amministratori coloro che esercitano in via esclusiva la gestione dell’impresa compiendo tutte le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale.
Pertanto, alla luce del dettato normativo potrebbe essere considerato amministratore di fatto solo colui che in via stabile e continuativa e non occasionale gestisca l’impresa, ponendo in essere tutti quegli atti che sono necessari per la realizzazione dell’oggetto sociale.
E’ evidente che l’amministratore di fatto non può essere un soggetto gerarchicamente in posizione subordinata rispetto all’amministratore di diritto, dovendo innanzitutto essere depositario di un potere decisionale che gli consenta di gestire l’impresa, in assenza del quale non sarebbe possibile operare.
Sono prerogative dell’amministratore la gestione della società nell’ambito dell’oggetto sociale; l’esecuzione delle delibere assembleari; lo svolgimento di attività propositiva nei confronti dell’assemblea ovvero di attività sostitutiva della stessa; la rappresentanza nei confronti dei terzi; la tenuta dei libri e delle scritture contabili.
La giurisprudenza nel corso del tempo ha enucleato le caratteristiche dell’attività di gestione societaria tipica dell’amministratore, facendovi rientrare l’impartire direttive, il condizionare le scelte operative e precisando che con riguardo all’amministratore di fatto l’ingerenza non si esaurisce nel compimento di atti eterogenei ed occasionali, ma deve rivestire carattere di sistematicità e completezza (Cass. Civ. sez. I, sent. n. 4045 del 01 marzo 2016).
La presenza dell’amministratore di fatto è data da elementi sintomatici di gestione o cogestione societaria, che facciano ritenere il soggetto quale intraneus nello svolgimento di funzioni gerarchiche e direttive in qualsiasi momento dell’iter aziendale (Cass. Pen., Sez. V, 23.11.2015, n. 6199), non essendo sufficiente una occasionale intromissione nella gestione, occorrendo un’ingerenza quantomeno stabile che si traduca nel ripetuto compimento di atti tipici dell’amministratore.
Nell’ipotesi in cui venga accertata la presenza di un amministratore di fatto alla luce dei criteri sopra indicati, di derivazione normativa e giurisprudenziale, costui risponderà dei reati societari e fallimentari che siano stati commessi.
Potrà, pertanto, pur non rivestendo formalmente la qualifica, a mero titolo di esempio essere ritenuto penalmente responsabile del reato di bancarotta semplice o fraudolenta (artt. 216, 217 e segg. legge fallimentare) ovvero del reato di false comunicazioni sociali (art. 2621 c.c.) o di altro reato commesso in ambito societario, sia per aver posto in essere direttamente la condotta, sia per non aver impedito all’amministratore di diritto di realizzarla e, quindi, per una mancata od omessa vigilanza, rivestendo una posizione di garanzia.