CONSEGUENZE PENALI ED EFFETTI SUL DECRETO DI AMMISSIONE. PROBLEMATICHE APERTE
Tematica particolarmente controversa e dibattuta in giurisprudenza è quella della legittimità della revoca d’ufficio retroattiva del decreto di ammissione al patrocinio a spese dello Stato nell’ipotesi in cui nella dichiarazione sostitutiva di certificazione allegata all’istanza, ex art. 79, comma 1, lett. c) D.P.R. n. 115/2002, siano state fornite indicazioni non rispondenti al vero o vi siano state omissioni ed incompletezze, totali o parziali.
Il problema è annoso con riferimento al caso in cui la falsità o le omissioni non incidano sulla sussistenza dei requisiti di reddito che consentono, ab origine, di accedere al beneficio.
Nulla quaestio, infatti, che se vi sia superamento dei limiti di reddito, le condizioni per usufruire del beneficio vengano meno e l’istanza sia inammissibile, con conseguente obbligo di revoca retroattiva d’ufficio da parte del magistrato competente.
Fatta questa breve premessa è opportuno evidenziare che la falsità o l’omissione rilevano sotto un duplice profilo.
Il primo profilo concerne l’eventuale integrazione del reato di cui all’art. 95 D.P.R. n. 115/2002 (riguardo l’istanza di ammissione nel procedimento/processo penale) ovvero di cui all’art. 125 stesso D.P.R. (riguardo l’istanza presentata in un procedimento civile).
Quello di falsità od omissione nella dichiarazione sostitutiva di certificazione allegata all’istanza di gratuito patrocinio è una figura speciale di reato che prevale sulla fattispecie comune di falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico previsto dall’art. 483 c.p.
E’ un reato di pericolo e di pura condotta, il cui perfezionamento prescinde dal conseguimento di un eventuale ingiusto profitto, che, anzi, ne costituisce una circostanza aggravante (v. Cass., Sez. IV Pen., n. 40943/2015; Cass., Sez. Un. Pen., n. 14723/2020).
In sostanza, per la integrazione del reato dal punto di vista oggettivo non è richiesta la verificazione dell’evento, essendo sufficiente che le indicazioni fornite nella dichiarazione sostitutiva non rispondano al vero o siano omessi in tutto od in parte dati di fatto nella medesima, che implichino un provvedimento del giudice.
La giurisprudenza concorda nel ritenere che l’effettiva sussistenza delle condizioni previste per l’ammissione al gratuito patrocinio sia irrilevante e che il reato possa sussistere anche se la falsità o l’omissione non comporti il superamento dei limiti di reddito (v. Cass. Pen., sez. IV, 08 gennaio 2021).
Incidente è, invece, l’elemento soggettivo del reato, integrato dal dolo generico, cioè dalla mera coscienza e volontà della falsità, senza che assuma rilievo la finalità di conseguire un beneficio che non compete.
Il dolo, in ogni caso, seppur generico, non può essere considerato in re ipsa, ma deve essere rigorosamente provato. Il reato, pertanto, dovrà essere escluso quando la falsità o l’omissione derivino da leggerezza o negligenza dell’agente (Cass., Sez. Un. 14723/2020; Cass. n. 7192/2018), non punendo il nostro ordinamento il falso documentale colposo.
Il secondo profilo sotto il quale rileva la falsità o l’omissione di dati nella dichiarazione sostitutiva di certificazioni è dato dalle conseguenze che essa produce sull’ammissione al beneficio del gratuito patrocinio.
La questione controversa è se vi sia obbligo del magistrato di revocare il decreto di ammissione al gratuito patrocinio, automaticamente e con effetto retroattivo, a seguito del solo accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate o di altri approfondimenti successivi all’ammissione, della sussistenza di una discrasia tra i dati dichiarati od omessi e quelli reali, senza tener conto della persistenza dei requisiti richiesti dalla legge per godere dell’esaminato beneficio.
Sul punto si sono formati due orientamenti contrapposti, con vedute divergenti rispetto al problema di fondo, quello del bilanciamento tra i due interessi antagonisti dello Stato, che vengono in rilievo: garantire al cittadino privo dei mezzi economici di esercitare pienamente ed in concreto il proprio diritto di difesa ex art. 24, 3 comma, Cost. e contenere i costi finanziari gravanti sullo Stato medesimo.
Un primo orientamento ha trovato la sua sintesi in un obiter dictum della sentenza della Suprema a Corte a Sezioni Unite n. 6591/2008 (sent. Infanti), successivamente ripresa anche da altre pronunce. In quell’occasione la Corte, con un approccio formalistico, ha precisato che la falsità delle indicazioni contenute nell’autocertificazione è connessa all’ammissibilità dell’istanza e non a quella del beneficio. Pertanto, anche una discrepanza che non avrebbe inciso sulle condizioni reddituali di ammissione acquista rilievo ai fini della revoca retroattiva del decreto di ammissione.
Un secondo orientamento, di senso opposto, ha trovato recentemente conferma in Cassazione, Sezioni Unite Penali, n. 14723/2020.
In tal caso la Corte di Cassazione, con un approccio più sostanzialistico, ha fornito una lettura del testo normativo costituzionalmente orientata ed aderente ai principi espressi dalla CEDU in materia di giusto ed equo processo (art. 6 CEDU).
In particolare, partendo dal presupposto che il gratuito patrocinio risponde all’esigenza di rendere concreti ed effettivi i principi del diritto di difesa, ex art. 24 Cost., e del giusto processo, ex art. 111 Cost., così come anche richiamati nella CEDU, il Giudice di legittimità è giunto alla conclusione che la falsità o l’incompletezza nella autocertificazione non determinano la revoca del decreto di ammissione, se, comunque, persistono i requisiti reddituali. Diversamente ritenendo verrebbe pregiudicato il corretto esercizio del diritto di difesa per il cittadino non abbiente, che pur in possesso dei requisiti, non usufruirebbe del beneficio.
La Corte fornisce, alla luce dei principi sopra menzionati, una interpretazione esegetica del testo normativo, evidenziando che il dato letterale del D.P.R. n. 115/2002, prevede espressamente i casi nei quali il giudice competente può procedere d’ufficio alla revoca.
Essi sono quelli di cui agli art. 112 e 95 D.P.R. n. 115/2002.
In particolare l’art. 112, comma 1, contempla l’obbligo di revoca del decreto di ammissione:
- Se, nei termini previsti dall’art. 79, comma 1, lett. d), l’interessato non provvede a comunicare le eventuali variazioni dei limiti di reddito;
- Se, a seguito della comunicazione prevista dall’art. 79, comma 1, lett. d), le condizioni di reddito risultano variate in misura tale da escludere l’ammissione;
- Se, nei termini previsti dall’art. 94, comma 3, non sia stata prodotta la certificazione dell’autorità consolare;
- D’ufficio o su richiesta dell’ufficio finanziario competente presentata in ogni momento, e comunque non oltre 5 anni dalla definizione del processo, se risulta provata la mancanza, originaria o sopravvenuta, delle condizioni di reddito di cui agli artt. 76 e 92.
L’art. 112, comma 2, prevede, poi, che il magistrato possa procedere alla revoca all’esito delle integrazioni richieste se vi sono fondati motivi per ritenere che l’istante, tenuto conto del tenore di vita, del casellario giudiziale, delle condizioni personali e familiari e delle attività eventualmente svolte, non versi nelle condizioni di reddito richieste.
L’art. 95, infine, consente la revoca dell’ammissione in caso di condanna ex se per il reato ivi disciplinato (a prescindere, quindi, dal superamento della soglia di reddito).
Al di fuori di queste ipotesi non sono previste dal dettato normativo differenti ed ulteriori possibilità di revoca dell’ammissione.
La Corte esprime, dunque, il principio di diritto secondo cui “la falsità o l’incompletezza della dichiarazione sostitutiva di certificazione prevista dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 79, comma 1, lett. c) qualora i redditi effettivi non superino il limite di legge, non comporta la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, che può essere disposta solo nelle ipotesi espressamente disciplinate dal cit. D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 95 e 112”.
Rimangono aperte due questioni, distoniche rispetto ai principi di diritto, costituzionali ed europei, seguiti nella sentenza esaminata, rispetto alle quali la Suprema Corte fornisce una lettura di dubbia legittimità costituzionale.
La prima, la revoca ex art. 112, comma 1, lett. a) nel caso in cui non vengano comunicate, nell’anno successivo al loro verificarsi, le variazioni dei limiti di reddito, pur se irrilevanti rispetto al superamento della soglia.
La seconda, la revoca ex art. 95, comma 2, con conseguente recupero delle somme eventualmente già corrisposte in caso di condanna per il reato di falsità od omissione nell’autocertificazione, anche quando la falsità o l’incompletezza non ha inciso sulla sussistenza del requisito reddituale.
Su tali aspetti il giudice di legittimità, aderendo all’interpretazione letterale delle norme, richiama precedenti orientamenti conformi (Cass., sez. IV, n. 43593/2014; Cass. Sez. V, n. 13309/2008), e fa proprio l’assunto, asincrono rispetto al principio ispiratore della sentenza in commento, secondo il quale sia l’omessa comunicazione delle variazioni, sia la condanna per il reato ex art. 95, a prescindere dalla rilevanza sul reddito, rappresentano inadempimento di un obbligo di lealtà cui il singolo è tenuto verso le istituzioni, la cui violazione legittimamente comporta la revoca del beneficio.
Sembra trattarsi di un tentativo di far prevalere l’interesse pubblico al recupero delle risorse statali a scapito della salvaguardia dell’effettività e concretezza del diritto di difesa anche del non abbiente, che sempre dovrebbe essere coordinato con il principio di tassatività.
E’ auspicabile, dunque, che in successivi arresti anche le questioni oggi aperte vengano affrontate e risolte alla luce dei principi costituzionali e della CEDU.